(Agi)È “illecita” la “cessione”, la “messa in vendita”, la “commercializzazione al pubblico” a “qualsiasi titolo” di “foglie, infiorescenze, olio e resina” derivati dalla coltivazione della cannabis light. Lo spiega la Cassazione, nelle motivazioni della sentenza con cui, lo scorso 30 maggio, le sezioni unite penali della Corte hanno sciolto il ‘nodo’ sui derivati della cannabis light, affermando che il commercio di questi prodotti rientra nella fattispecie di reato contenuta nel Testo unico sugli stupefacenti.
In base a quanto previsto dalla legge del 2016, dalla coltivazione della canapa “possono ricavarsi fibre e carburanti, ma non hashish e marijuana”, osserva la Cassazione. Per questo, i giudici di piazza Cavour, nella loro sentenza, riportano l’intero elenco, contenuto nella normativa di riferimento, dei prodotti che lecitamente si possono ottenere dalla cannabis sativa L: si tratta di “alimenti e cosmetici prodotti esclusivamente nel rispetto delle discipline dei propri settori”, di “semilavorati, quali fibra, canapulo, polveri, cippato, oli o carburanti, per forniture alle industrie e alle attività artigianali di diversi settori, compreso quello energetico”, di “materiale destinato alla pratica del sovescio” e di “materiale organico destinato ai lavori di bioingegneria o prodotti utili per la bioedilizia”.
E ancora: nell’elenco vengono citati il “materiale finalizzato alla fitodepurazione per la bonifica di siti inquinati” e le “coltivazioni dedicate alle attività didattiche e dimostrative nonché di ricerca da parte di istituti pubblici o privati”, o “destinate al florovivaismo”.
Il Testo unico sugli stupefacenti “incrimina la commercializzazione di foglie, inflorescenze, olio e resina, derivati della cannabis, senza operare alcuna distinzione rispetto alla percentuale di Thc che deve essere presente in tali prodotti”, spiegano le sezioni unite penali della Cassazione, “l’effettuata ricostruzione del quadro normativo di riferimento conduce ad affermare che la commercializzazione dei derivati della coltivazione della cannabis sativa L, che pure si caratterizza per il basso contenuto di Thc, vale ad integrare il tipo legale individuato dalle norme incriminatrici”.
Un giro d’affari da 40 milioni
Prima che si esprimesse la Cassazione, la legge 242 del 2016, entrata in vigore il 14 gennaio 2017, aveva fatto sbocciare come funghi i negozi ‘green’ in tutta Italia, con un giro d’affari in forte crescita (nel 2018 si calcolano introiti per 40 milioni di euro, in crescita). È un mondo in crescita, quello a cui il ministro Salvini vuole imporre un giro di vite (“Li chiuderò uno a uno”, ha annunciato a maggio), che si era mosso apparentemente nel rispetto della legge, giacché infiorescenze e resine vendute rispettano il tetto fissato per la dose di Thc contenuta, ossia lo 0,6%, quando quella alla base delle classiche “canne” (ma anche quella, legale e coltivata dallo Stato, per scopi terapeutici) si aggira tra il 5 e l’8% di Thc, che poi è il tetraidrocannabinolo, principio attivo che crea l’effetto psicotropo.
I controlli sui coltivatori sono affidati al Corpo Forestale: “Qualora all’esito del controllo il contenuto complessivo di THC della coltivazione risulti superiore allo 0,2 per cento ed entro il limite dello 0,6 per cento, nessuna responsabilità è posta a carico dell’agricoltore che ha rispettato le prescrizioni di cui alla presente legge”. Se la dose è superiore a 0,6, scatta il sequestro e la distruzione della coltivazione.
Ma il giudice dovrà valutare la “reale efficacia drogante”
La sentenza della Cassazione costringerà dunque gli operatori ad abbassare le serrande? La risposta sembrerebbe positiva ma la questione non è così semplice, dati i margini di discrezionalità che le toghe di Piazza Cavour sembrano comunque concedere al giudice. Se è un reato “l’offerta a qualsiasi titolo, la distribuzione e la messa in vendita dei derivati della coltivazione della cannabis sativa L”, il giudice che si trova ad esaminare tali situazioni deve “verificare la rilevanza penale della singola condotta, rispetto alla reale efficacia drogante delle sostanze oggetto di cessione”.
Le sezioni unite spiegano che “si impone l’effettuazione della puntuale verifica della concreta offensività delle singole condotte, rispetto all’attitudine delle sostanze a produrre effetti psicotropi”. La Corte richiama in proposito la giurisprudenza “che da tempo ha valorizzato il principio di concreta offensività della condotta, nella verifica della reale efficacia drogante delle sostanze stupefacenti oggetto di cessione”, come ad esempio nei casi di “coltivazione domestica” di cannabis per cui è stato sancito che “è indispensabile che il giudice di merito verifichi la concreta offensività della condotta”, con principi ribaditi di recente anche dalla Consulta.
“Il legislatore può sempre intervenire”
“Ciò che occorre verificare – si spiega nella sentenza – non è la percentuale di principio attivo contenuta della sostanza ceduta, bensì l’idoneità della medesima sostanza a produrre in concreto un effetto drogante”. La Cassazione osserva poi che “resta ovviamente salva la possibilità per il legislatore di intervenire nuovamente sulla materia, nell’esercizio della propria discrezionalità e compiendo mirate scelte valoriali di politica legislativa, così da delineare una diversa regolamentazione del settore che involge la commercializzazione dei derivati della cannabis sativa L nel rispetto dei principi costituzionali e convenzionali”.
La Corte, inoltre, rileva che le “asimmetrie interpretative” che vi sono state dell’ambito applicativo della legge del 2016 “possono pure sortire una ricaduta dell’elemento conoscitivo del dolo del soggetto agente rispetto alle condotte di commercializzazione dei derivati della cannabis sativa L, effettuate all’indomani dell’entrata in vigore della novella: il giudizio sulla inevitabilità dell’errore del divieto, cui consegue l’esclusione della colpevolezza, deve essere ancorato a criteri oggettivi, quali l’assoluta oscurità del testo ovvero l’atteggiamento interpretativo degli organi giudiziari”.
“Questa sentenza non aiuta a rendere più chiaro il quadro, come invece avrebbe dovuto. Bisogna partire da dati scientifici”, dichiara l’avvocato Carlo Alberto Zaina, difensore del commerciante di Ancona indagato dal cui procedimento è scaturita la pronuncia della Cassazione. “In linea di principio, ci può essere una stretta sugli shop, ma poi le disposizioni vanno interpretate bene e gli strumenti per interpretarle a favore di esercenti e commercianti ci sono”, afferma il legale, commentando a caldo le motivazioni depositate dalla Corte e riservandosi “di approfondire meglio la questione”. (Agi)