Se i giovani pensano che fare moda sia sinonimo di diventare stilisti o fashion blogger, la conseguenza è una sola: la moda morirà.

E questo perché, in un’epoca di social network, dove si sfoggiano titoli di studio ridondanti che non sempre corrispondono al reale valore umano, mancano i costruttori dei prodotti.

Gli operai insomma, quelli che costruiscono i muri delle case, i tornitori, i fresatori e, nel settore della moda, le sarte. Quelle che attaccano i bottoni, che tagliano i vestiti, che rifilano le maglie. Quelle che la moda la fanno davvero, con le loro mani, con forbici e aghi, con tessuti e matasse di filo.

Se non ci fossero le sarte e le magliaie, Re Giorgio e Valentino sarebbero ancora a bottega in paese e il concetto di fashion blogger, cioè di chi la moda la vede già realizzata e finita e si limita a strumentalizzarla a suo piacimento, non esiterebbe.

Lo sa bene Cinzia Fabris, imprenditrice titolare di un maglificio e presidente di Cna Vicenza, che fatica a trovare ragazze per la sua fabbrica. Lavori ben pagati, garantiti, con possibilità di crescita e alto potenziale di scambio tra aziende.

Cinzia Fabris, in molti nel settore della moda lamentano mancanza di personale. Che sta succedendo?

Purtroppo oggi il concetto di ‘moda’ è legato all’essere stilista, al nome del marchio. I giovani vogliono le luci della ribalta a mancano le persone che vengono a lavorare in fabbrica, quelli che la moda la fanno davvero.

In che senso?

Nel senso che oggi i ragazzi pensano che lavorare nel mondo della moda significhi fare gli stilisti o le modelle. Studiano in scuole prestigiose con l’obiettivo di diventare creatori di moda e non si rendono conto che il mondo della moda ha tante sfaccettature e ci sono tantissimi lavori possibili nel suo interno. Vogliono lavorare nel fashion? E che vengano a lavorare nel fashion, nelle fabbriche che producono la moda.

Partiamo da una base fondamentale sulla quale sviluppare un discorso professionale: il settore della moda è  un settore che funziona?

Assolutamente sì, soprattutto nella fascia alta del mercato. E’ un settore che sta recuperando molto bene dalla crisi e il lavoro non manca, anzi.

E’ una questione di ‘made in Italy’ o in generale?

E’ soprattutto una questione di ‘made in Italy’. Il prodotto rivolto ad un mercato attento a qualità e stile  funziona bene. E richiede ricerca e lavoro italiano.

Una curiosità: l’Italia è oggettivamente sottovalutata in patria ed acclamata all’estero. Perché nella moda il ‘made in Italy’ è sempre una garanzia e il suo mercato tiene?

Perché oltre a qualità, stile, gusto e ricerca, c’è la filiera corta. Il che significa che siamo disposti a produrre cose bellissime in piccole quantità, che è quello che richiede il mercato oggi e che non conosce crisi. La crisi ha toccato i grossi gruppi, quelli che devono avere numeri importanti per giustificare la produzione.

Qual è il motivo per il quale non si trova personale?

Perché abbiamo avuto 15-20 anni di delocalizzazione. E con la delocalizzazione si è impoverita la filiera. Ora mancano le figure professionali che sappiano fare i lavori di fabbrica, nel mio caso, chi sappia fare le maglie, chi sa stirare sulla pressa, chi faccia ramaglio (dove bisogna infilare i punti uno a uno). Quando qualcuno va in pensione, non si trova nessuno per sostituirlo. E’ un vero dramma. Oggi mancano le donne che sappiano tenere un ago in mano per riparare i capi.

Da come ne parla, questo significa che queste figure professionali potrebbero anche essere ben pagate? Perché sa… quando si pensa ad un operaio di fabbrica si tende a storcere il naso pensando allo stipendio…

Faccio un esempio pratico: Una rimagliatrice, ce la rubiamo a suon di contratti e facilitazioni. Non sono lavori poveri. Lo stesso vale per altri ruoli. Ci sono moltissime possibilità di sviluppo, dobbiamo far comprendere ai ragazzi che lavorare in fabbrica è un lavoro nobile.

E come si potrebbe fare a convogliare questo messaggio?

Si devono coinvolgere le scuole. Io spero che le scuole riescano a comprendere il problema e contribuiscano a veicolare i ragazzi facendo loro capire che non ci sono solo i lavori evidenti, come gli stilisti o i fashion blogger, ma ci sono tantissimi lavori specifici che quando li impari hai un’arte in mano e quest’arte può essere spesa. E il lavoro sarebbe assicurato.

Si pensa che in fabbrica il lavoro sia statico.

Niente di più sbagliato. Il lavoro è variegato, è in costante movimento. La ‘catena’ non esiste più. I giovani devono essere spinti da scuole, genitori, società. Io ho avuto una bella esperienza con 2 ragazze dell’Ipsia di Thiene che sino venute da noi per il progetto di alternanza scuola-lavoro. Ma di tutta la scuola solo 2 erano disponibili, entrambe di nazionalità serba. Bisogna capire come intercettarli questi ragazzi, perché loro pensano di dover andare in fabbrica e che la professione sia tutta lì. E alcuni se vogliono lavorare nella moda e non possono fare gli stilisti, piuttosto vanno a lavorare al bar o in altri contesti completamente diversi.

Che cosa manca alle famiglie per stimolare i ragazzi?

Oggi manca la cultura di mandare i ragazzi in fabbrica. Devono andarci, fare esperienza e vedere con i loro occhi come sarà il lavoro. Allo stesso tempo, per noi è molto stimolante insegnare loro. Invece si è sviluppata l’abitudine di dire che non vengono pagati, che vengono sfruttati. Ovvio che all’inizio è dura, ma vale per tutte le professioni. Si parte anche qui dal basso, ma sono lavori piacevoli, dove si può crescere, si possono sviluppare abilità e si diventa professionisti.

Sono problemi solo del mondo della moda o anche di altri settori?

E’ un problema condiviso. Nell’edilizia mancano i muratori, ma in ogni settore c’è una parte di manodopera carente. E deve comunque essere una manodopera specializzata, mancano quelli che il prodotto lo creano davvero.

Anna Bianchini

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