Si chiude una campagna elettorale senza passioni. Nata male, in pratica 14 mesi fa con il referendum costituzionale sul Senato, finita prigioniera di vecchi miti, dall’antifascismo dei Centri Sociali alla alzata di scudi di Casapound e Forza Nuova.
In realtà, se ancora vi fosse bisogno di conferme, la politica italiana ha dimostrato il suo limite più evidente: l’irrilevanza. Che è la cosa peggiore per chi vuol governare una comunità. Irrilevanza di fronte alle grandi decisioni economiche (le prendono ormai in 8-10 persone schiacciando un bottone e applicando un algoritmo), alle tragedie estere (prima fra tutte la distruzione della Siria), alla lotta contro i cambiamenti climatici che accentueranno ogni anno di più l’esodo dal Sud al Nord del mondo.
Sono questioni che neanche hanno trovato eco nel dibattito politico casalingo: quest’ultimo si è acceso su alcune furbizie dei deputati del Movimento 5 Stelle (rei di non aver versato parte degli emolumenti al fondo per le imprese come promesso e detto), sulle paure destate dai migranti soprattutto nelle grandi città ed alimentate dai demagoghi di turno e smorzate dal buonismo salottiero di qualche anima bella, sul ritorno di Silvio Berlusconi che ha ripetuto le stesse identiche cose di 24 anni fa, con qualche lifting in più ed il solito foglio bianco tra le mani, sul dilemma Pd Renzi o Gentiloni.
In realtà gli osservatori attenti della politica casalinga sanno bene che i programmi presentati sono irrilevanti nella migliore della ipotesi, truffaldini nella peggiore. Il gioco vero inizierà dalla sera di lunedì 5 marzo quando capiremo come hanno votato gli italiani.
Gli orientamenti di voto dicono che il primo partito sarà il Movimento 5 Stelle che potrà attestarsi tra il 25 ed il 28% dei voti ma al momento non ha ancora scelto di allearsi con qualcuno. Di Maio non vuole però continuare a fare testimonianza: sa che alla lunga il movimento di proprietà della Casaleggio associati, non reggerebbe… dalla sua ha solo due opzioni di alleanza, una con Liberi ed Uguali di Pietro Grasso (ma i numeri non ci sono), l’altra con la Lega di Salvini e qui i numeri probabilmente ci sarebbero. C’è anche il collante politico: sui migranti, sull’Europa, sull’euro, sulla Fornero. Salvini è molto più vicino a Di Maio che all’alleato ufficiale Silvio Berlusconi.
La coalizione di centrodestra, data tra il 37 ed il 40%, resta la favorita.
In teoria, grazie ad una legge elettorale folle (per cui tu voti uno ma non sai che automaticamente puoi votare altri che non vorresti), il centrodestra potrebbe sfiorare la maggioranza dei seggi parlamentari sia alla Camera che al Senato. Ma ha un problema enorme: la scarsa coesione interna, la visione diversa su tutte le principali questioni programmatiche, nonostante un programma in dieci punti sia stato firmato e depositato dai tre leader. Un programma però che ha un ‘difettuccio: non spiega i dettagli delle scelte, a partire dalla flat tax, alla modifica della legge Fornero sulle pensioni; per arrivare alla applicazione dei Tratttati Europei, primo fra tutti il Fiscal Compact, un giochino che significa rientro dal debito pubblico, in 20 anni, sotto la soglia del 60% del rapporto debito/pil e quindi sacrifici notevoli da fare. Berlusconi può giocare su due tavoli: quello con Lega e Fratelli d’Italia (e potrebbe toccare la soglia della maggioranza assoluta dei seggi) e quello con il Pd, in una riedizione del Patto del Nazzareno che l’Europa vuole riconfermato e che l’uomo di Arcore vede come migliore argine nella difesa del proprio futuro economico. Certamente il centrodestra, se non avrà la maggioranza dei seggi il 5 marzo, si scioglierà immediatamente.
Il Pd, in queste ore che ci separano dal voto, teme il tracollo. Ormai il 25% raggiunto da Bersani nel 2013 sarebbe già considerato un trionfo da Renzi, che dovrà accontentarsi di un risultato inferiore. Forse non andrà sotto la soglia, considerata disfatta, del 20% ma difficilmente gli eredi dei Ds e della Margherita supereranno il 23%. L’esperienza governativa di Renzi sembra completamente evaporata nonostante alcuni risultati importanti, offuscata dal grave errore della campagna referendaria, dalle incertezze sulla gestione dei flussi migratori durante il ministero Alfano, alla approssimazione sulla così detta Buona Scuola. In realtà il Pd paga il suo accostamento all’establishment economico finanziario, alle banche (sulle quali le responsabilità più gravi le ha avute il Governo Monti), agli interessi imprenditoriali: il mondo tradizionale della sinistra si è sentito abbandonato dal suo partito di riferimento. E Renzi, non ha fatto l’unica cosa giusta che doveva fare in queste ultime due settimane: dire con chiarezza che è Gentiloni il candidato premier del Pd. Renzi tenterà di resistere dopo aver disegnato gruppi parlamentari a lui fedeli: difficilmente gli andrà bene, perché in politica quando perdi tutti ti abbandonano, anche i più ‘fedeli’. E sconterà sulla sua pelle l’amara verità che “la politica si conclude sempre con un dispiacere”. Il fututo del Pd non sarà probabilmente nelle sue mani ma in quelle di Gentiloni, di Minniti, di Calenda (vero astro emergente), di Padoan, di Del Rio, in una resa dei conti che accompagnerà un partito destinato a cambiare pelle, anima e gruppo dirigente ancora una volta dopo un anno.
Ma allora ,in questo prevedibile caos post elettorale, quale sarà lo scenario più attendibile?
Dovremo avere molta pazienza prima di avere un governo, quindi Gentiloni proseguirà nell’ordinaria amministrazione che poi tanto ordinaria non sarà visto che a fine marzo dovremo fare una manovra economica straordinaria per sistemare i conti pubblici.
Mattarella avrà un compito difficilissimo: costruire, con ogni probabilità, un Governo di unità nazionale o, se non piacerà il termine, un governo del presidente. Il programma? Debito pubblico, sviluppo industriale ed occupazione, con buona pace delle sciocchezze sentite sin qui. L’asse portante sarà rappresentato da Forza Italia e dal Pd e poi si aggiungeranno altri gruppi (da Più Europa della Bonino a Noi per l’Italia di Lupi e Fitto se supereranno come pare possibile la soglia del 3%). Di sicuro, comunque, nessun parlamentare, neanche quelli che rimarranno ‘fuori’ dal perimetro di governo, farà le barricate per arrivare a nuove elezioni.
Quel che è certo, è che dal 5 marzo potrà essere certificata la fine della Seconda Repubblica, già agonizzante da qualche anno e l’inizio di una Terza, con nuovi partiti che nasceranno dalle ceneri degli attuali, in un gioco, difficile da spiegare al comune cittadino ,di scomposizione e ricomposizione delle forze politiche esistenti. Con la speranza che questa Terza Repubblica sappia riportare la politica ad essere ‘rilevante’. A contare, a decidere cose serie. E possibilmente a togliersi di dosso un po’ di malcostume.
Edmond Dantes